giovedì 18 dicembre 2008

Per farla finita col giudizio di dio (ascesa e declino dell'operaismo)

"Adesso cominciamo a parlare dei rapporti di produzione"
B.Brecht

Nella sua "La società dello spettacolo", opera che molti, non avendola letta, fraintendono per una critica della televisione, Guy Debord analizzava i sistemi di produzione capitalista e socialista. Secondo la fine interpretazione debordiana lo sviluppo di entrambi si differenziava unicamente nel grado di produzione immaginaria e simbolica, lo "spettacolo", rispettivamente nello "spettacolare concentrato" del socialismo ed in quello "diffuso" del capitalismo. In tutta l'opera dello scrittore francese l'unica alternativa politica appena accennata era lo sviluppo mondiale dei "consigli" dei lavoratori, un accenno ad una tradizione, quella consiliarista, ben radicata nella storia del movimento operaio. Di sicuro i situazionisti, pur nel loro breve ed intenso apparire sulla scena poetico politica, non ci hanno lasciato altre vere indicazioni sull'organizzazione e sul che fare : i consigli di Debord sono rimasti un semplice e vago riferimento. Parallelamente al lampo situazionista, indubbiamente con diverse connessioni, abbiamo avuto in Italia lo sviluppo dell'operaismo. Nel Lenin in Inghilterra del primo Tronti possiamo riscontrare una comune eco nitzcheiana, un farla finita con il diamat sovietico ed uno sfondamento a sinistra di teoria e prassi. Dal punto di vista della teoria e pratica organizzativa, comunque, l'operaismo è andato ben più avanti di Debord e soci, ed insieme al consiliarismo di matrice eterodossa ed antiburocratica, ha proposto sulla scena mondiale una pratica di sicuro innovativa. Quello che veniva criticato come "spontaneismo", la pratica conflittuale delle organizzazioni di "parte operaia", la classe operaia "senza alleati", hanno prodotto un bel po' di cose. L'Autonomia operaia ha sviluppato il concetto di rifiuto del lavoro, del salario sociale sganciato dalla prestazione lavorativa ecc. Tutto ciò in una cornice insurrezionale. Questo è il tratto decisivo dell'eresia operaista, quello della sperimentazione di nuove pratiche organizzative, teoriche e conflittuali dentro l'ambito leninista e non più togliattiano. Se si legge "Dominio e sabotaggio" di Negri non si possono avere dubbi al riguardo. All'interno di una lettura della realtà molto dinamica, sociale, attenta alle evoluzioni ed ai cambiamenti del mondo del lavoro, del linguaggio ecc. l'operaismo affrontava l'assalto al cielo ed al cuore dello Stato. Successivamente al crollo ed alla sconfitta di questo assalto, al 7 Aprile ed alla catastrofe della lotta armata, il pensiero operaista ha avuto la capacità di rifondarsi e rinnovarsi in maniera strabiliante, come forse poche culture della sinistra hanno mai saputo fare. Questo rinnovamento, per cui è possibile parlare di post-operaismo, avviene sostanzialmente grazie all'incontro fecondo con il pensiero francese di Foucault e Deleuze. Principalmente nella lettura della microfisica del potere foucaultiana, abbiamo uno slittamento di tutta la tematica operaista in un contenuto sociale della sua prospettiva politica. Permangono i riferimenti al rifiuto del lavoro, al sabotaggio, all'esodo, al salario sociale, all'autonomia come metodo, al passaggio al comunismo senza transizione socialista, alla costruzione dei contropoteri diffusi ecc. Ma, progressivamente, fino all'ultimo incontro con il movimento no global e con le nuove pratiche altermondialiste, lo sfondo leninista viene completamente abbandonato. E' il problema del Potere ad essere messo in questione, e con questo la lettura complessiva della politca generale, della sfera della rappresentanza democratica. Questa lettura ha portato ad effetti immediati anche positivi, come il saper afrontare meglio la complessità dei fenomeni sociali e delle sfaccettature variegate dei conflitti e delle resistenze in atto, così come pure la possibilità di porre le proprie organizzazioni, movimenti o centri sociali, direttamente verso il conflitto, saltando mediazioni e burocrazie. Altri, però, e ben più gravi, fino alla definitiva mutazione genetica sono stati i danni subìti. Innanzitutto il rifiuto della delega come principio e della strutturazione formale dei gruppi ha portato ad un inevitabile verticismo e leaderismo. Se non ci sono luoghi in cui decidere e manca un riferimento esecutivo revocabile è chiaro che decideranno in pochi senza possibilità di verifica. Così come, mentre lo Stato agiva violentemente, negli ultimi trent'anni, a favore del capitale con le ristrutturazioni neoliberiste, fino a diventare un Profit State, la lettura microsociale non consentiva più di affrontare efficacemente gli snodi decisionali del governo. Se ci si è buttati nel contrasto della governance, ci si è fermati in una totale immobilità nel campo del government, della decisione politica. A questo punto, perchè non può sfuggire a nessuno il nesso che di volta in volta si crea tra i due livelli, si è creato un sistema di supplenze ed alleanze che soppiantasse questa mancanza. Ed allora, per necessità, ci si è rivolti alle burocrazie riformiste partitiche e sindacali, in cerca di un impossibile entrismo sui generis, di un "attraversamento", dell' utilizzo strumentale di strutture già esistenti. Va da sè che questo tentativo si è risolto in una catastrofe politica, di cui ogni tanto ci si rende pure conto, come nella fase del 2003 della diatriba violenza-nonviolenza e dell'ingresso di rifondazione comunista nell'Ulivo prima e nel governo poi. Salvo poi ripetere lo stesso schema con altri gruppi, dalla CGIL in giù. Le vecchie parole d'ordine del rifiuto del lavoro e del reddito di cittadinanza, create in un contesto rivoluzionario e addirittura leninista ed insurrezionale, si sono come ibernate e collocate in questa pratica sociale assoluta con alleanze riformiste e riformatrici. Questo, paradossalmente, andrebbe pure bene, solo che ci sono dei piccoli particolari che non quadrano e i fatti, si sa, hanno la testa dura. La crisi economica attuale, una crisi prima che finanziaria, crisi di struttura e di sovrapproduzione, mostra come non mai l'esigenza di intervenire a monte dei processi di produzione, della divisione del lavoro e della pianificazione. E' chiaro che l'attuale sistema produttivo sta portando al collasso l'intero pianeta e che non è più possibile affidarsi al capitalismo ecologico e sostenibile per salvarsi dal disastro. E' il riformismo ad essere oggi impossibile. Si ripropongono con forza, i problemi di un socialismo che sappia organizzare in maniera più umana e consapevole la grande produzione, magari eliminando anche la forzata salarizzazione di sfere relazionali e cognitive. Se l'obiettivo è quello di pianificare, ridurre e dividere il lavoro, non è tanto chiaro come possa farlo esclusivamente un, pur necessario, salario sociale. Ed in genere non è chiaro come una strategia federalista e microconflittuale possa farsi carico dell'immane compito di ricostruire, dall'alto, dal basso, da sopra o da sotto che si voglia, una strategia rivoluzionaria adeguata ai tempi. Quindi, invece di contorcersi nelle crepuscolari dispute attuali sull'essere marxisti e non di sinsitra, invece di addossare ogni colpa dei rallentamenti dei conflitti ai comunisti brutti e cattivi (poco fashion), sarebbe meglio che il movimento post-operaista prendesse atto del proprio fallimento e si ritirasse, con il positivo bagaglio delle sue migliori intuizioni, negli ancora troppo deboli ranghi della sinsitra anticapitalista.


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